Per Franco Loi
Il 4 gennaio si è spento, a Milano, Franco Loi. Questo breve saggio è un modo per ricordare e rendere omaggio alla «vûs fina» di uno dei più grandi poeti dialettali del secondo Novecento, la cui morte, forse, è sfuggita all’attenzione di molti.
«Vèss om e vèss puèta»
«I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’è ditta dentro vo significando». Così, citando Dante (il riferimento è al canto XXIV del Purgatorio) assai spesso negli anni, Franco Loi ha risposto a chi gli chiedesse di definire i fondamenti del suo discorso poetico, dichiarando apertamente, senza remore, che i suoi versi sono il risultato dell’espressione libera di sé, che rifiuta convenzioni artificiose. L’essenza della sua poesia si dispiega, dunque, dall’«intuizione, dall’osservazione del reale, dalla vicinanza alle cose», dall’«amore per la vita» che genera un movimento, un’emissione di suoni che divengono successivamente significati, quindi parole.
La scrittura non è il risultato di una costruzione mentale del poeta che raccoglie e classifica, ante rem, i contenuti dell’ispirazione, e non ha a che fare con l’intenzione razionale di trasmettere un’immagine idealistica o intellettualistica; nasce, invece, dall’ascolto autentico della propria memoria inconscia e, insieme, del mondo, è una rivisitazione a posteriori di una rivelazione, di una circostanza folgorante, atemporale, «nel momento in cui l’amore induce a esprimersi», e in cui si fondono una miriade di eventi sparsi, «immagini, frammenti, ombre» («Ma cos’è la poesia? È come il sogno, esprime la nostra parte inconscia, quello che ti viene dettato da dentro […]. A volte le cose sono chiare, altre volte sono immagini, frammenti, ombre a cui a fatica si riesce a dare un significato; «La poesia è il momento in cui ti congiungi con l’ignoto, con il mistero, anche con Dio. Scrivi perché è necessario, la forma viene dopo. Il primo che ha composto in endecasillabi non è partito dalla metrica»).