
Le domande di un pastore
Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Leopardi affida alla voce di un pastore nomade le grandi domande sul senso della vita e dell’universo. Solo, sotto il cielo stellato, il pastore tenta di spiegare la condizione umana, il ripetersi dell’esistenza di generazione in generazione, il succedersi dei giorni e delle notti, il susseguirsi delle stagioni; cerca di capire il perché del dolore e di quell’inquietudine angosciosa definita dalle parole “tedio” e “fastidio”, un’inquietudine che è infine tutt’uno proprio con il bisogno di senso. La spiegazione è tentata dapprima guardando la vita dal punto di vista della luna, dall’alto, e poi guardandola invece dal punto di vista delle pecore, dal basso. Il punto di vista del pastore è per così dire impregiudicato, e spregiudicato: non ci sono un’ideologia, una religione, un sistema filosofico, una qualunque petizione di principio che impongano una direzione alla ricerca: l’importante è dare un significato alla condizione degli uomini e al rapporto che gli umani hanno con l’universo. Ebbene: Leopardi pone così, con un linguaggio semplice e diretto ma anche con la massima serietà e radicalità, le più grandi questioni filosofiche affrontate nei secoli da tutte le civiltà e tutte le culture. La sua novità consiste però nella scelta di affidare domande tanto significative, in uno dei testi più filosoficamente radicali dei Canti, alla voce di un pastore: una figura socialmente e antropologicamente lontanissima da quella del filosofo, il philosophe parigino della tradizione settecentesca. È in apparenza sorprendente che Leopardi, con la sua formazione illuministica, non affidi questo tipo di riflessione a uno specialista della conoscenza, o assumendola su di sé o delegando la propria voce a una figura come quelle di Parini, di Bruto o di Saffo, scelte in altre circostanze analoghe. In questo modo, Leopardi si rifiuta di delegare le grandi domande di senso a una porzione specifica dell’umanità, e diciamo pure a un ceto sociale ristretto, quello degli intellettuali. Leopardi sceglie di affidare quelle domande a un pastore, la figura sociale più umile e meno “civilizzata” che gli fosse possibile immaginare, e costruisce un alter ego lontanissimo da sé: un nomade, noi diremmo un rom, e magari uno zingaro. Si tratta di una rivoluzione concettuale e perfino politica: senza avere una reggia o un castello o una villa, senza una biblioteca e lontano da ogni accademia, questo umano che ha in qualche modo i tratti del primitivo riceve un mandato pieno a rappresentare il punto di vista dell’umanità di fronte alle grandi questioni di senso. Viene in questo modo implicitamente rivendicata la maggiore conquista del pensiero moderno, la concezione unitaria del genere umano: ciò di cui noi parliamo quando facciamo riferimento all’idea stessa dell’universale umano.
Un'umanità nuova
Questa scelta così sorprendente e coraggiosa è resa possibile non certo dalla recente tradizione arcadica e dal favoleggiamento del mondo pastorale che la caratterizza: lì non si tratta di affrontare le grandi questioni di senso, ma semmai di scostarle o sospenderle. Questa scelta è piuttosto resa possibile dal progetto leopardiano di un’umanità nuova, quale si va disegnando, ora per via negativa ora anche in modo affermativo come nella Ginestra; un’umanità nuova nella quale il diritto di porre le più alte domande di senso sia riconosciuto ad ogni singolo individuo. Leopardi vagheggia un’umanità liberata da ogni forma di delega intellettuale, non più divisa fra quanti hanno il diritto di porre le domande filosofiche e coloro, molto più numerosi, che hanno al massimo il diritto di accoglierle; e immagina un «onesto e retto conversar cittadino», cioè un dialogo fra gli umani che può essere costruito soltanto a partire dal diritto di ogni singolo individuo, foss’anche il pastore nomade e analfabeta della lontanissima e favolosa Asia, di porre le più alte domande di senso. La modernità come Leopardi la immagina dovrebbe essere insomma la possibilità per tutti di ereditare il gesto audace del titano preromantico, così che l'uomo comune possa infine coincidere con l'eroe alfieriano salito sulle scene per far guerra ai tiranni. La modernità come Leopardi la immagina dovrebbe essere quella in cui tutta l'umanità diviene erede del grande pensiero dell'Illuminismo, e anzi di tutta la maggiore tradizione filosofica, così che depositario del sapere non sia un ceto separato e speciale ma l’umanità nel suo insieme. L’originalità dei romantici, l’unicità del sublime gesto creativo del genio, è sostituito da un sapere che coinvolga tutti: non il sapere diffuso e diviso della civiltà di massa, contro la quale Leopardi non manca di appuntare i suoi strali, ma un sapere vero che ricongiunga ciò che l’umanità conosce per mezzo della propria condizione materiale, e che potremmo definire in termini di folclore nel senso altamente gramsciano, e le acquisizioni utili, cioè filosoficamente fondate, prodotte dal ceto intellettuale.
Il controdiscorso della scuola pubblica e di massa
Questo è stato e, vorrei dire, è ancora il progetto della scuola pubblica, cioè della scuola moderna, della scuola di massa. Ci siamo colpevolmente abituati a considerare l'aggettivo “pubblico” e la definizione “di massa” in senso riduttivo e perfino dispregiativo, stabilendo un’equazione fra ciò che è pubblico e ciò che è inefficiente e attribuendo alla massificazione un connotato solamente peggiorativo, così che la scuola pubblica di massa rischia di sembrarci tout court una scuola che non funziona. E invece la scuola pubblica di massa costituisce una delle poche ragioni di orgoglio che la modernità possa vantare, e uno dei suoi pochi successi indiscutibili, benché parziali e purtroppo precari. La modernità, come sappiamo bene, è stata attraversata da contraddizioni e mostruosità inaudite, fino alle guerre mondiali, ai campi di sterminio e alla bomba atomica; ma ha svolto anche un suo «controdiscorso» (come lo chiama Habermas), cioè ha tentato anche un progetto di liberazione audace e inedito. La scuola pubblica di massa costituisce uno dei tratti più alti di questo controdiscorso, una delle sue eredità meno discutibili, come d’altra parte la sanità e la giustizia pubbliche e di massa. Non saprei proprio immaginare una rinuncia a questo progetto che non costituisca per il genere umano un regresso secco e grave. Chiunque manchi di impegnarsi perché la scuola (e l’università), la giustizia e il sistema sanitario pubblici e di massa funzionino meglio, e in nome delle loro manchevolezze a volte anche gravi si creda legittimato a ridurne lo spazio, non lavora per il bene dell’umanità e per il suo “progresso” reale ma per interessi diversi, di individui singoli magari, ma non certo dell’universale umano e dell’universalità degli umani.